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L’anticipo: Bologna-Roma 1-1

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di Antonio Gurrado

Diciassettesima giornata,30 dicembre 1989

Tutti i pomeriggi, domenica compresa, i miei riposavano e per un breve periodo della mia infanzia avevano cercato di convincermi, obiettivo la loro pace, a riposare anch’io, se non altro la domenica quando non avevo da fare i compiti. Io però, che di notte godevo fior di dormite, non vedevo il motivo di ronfare anche al pomeriggio, tanto più mentre c’erano le partite; e infatti avevo preso l’abitudine di andare sì in camera mia ma di trascorrere l’oretta o oretta e mezza in cui i miei russavano cercando di distinguere la voce dei radiocronisti di Tutto il calcio. Possedevo all’epoca una radiolina che forse oggi potrebbe funzionare ancora, sapessi solo dov’è finita,  rossa e con un avvallamento sull’angolo superiore sinistro dell’altoparlante, frutto di chissà che botta; l’antenna era lunga in maniera spropositata e necessaria alla corretta ricezione così che, pur essendo l’oggetto dotato di un rostro sul retro per essere infissa sulla cinta dei calzoni (erano gli anni ’80), l’unica maniera di farla funzionare portandosela appresso era di ficcarsi l’antenna nell’occhio. Meglio ascoltarla più pacificamente come facevo io, sdraiato a letto cercando di non muovermi onde non disturbare non tanto il sonno dei miei quanto la voce dei radiocronisti, che origliavo a volume basso basso. Mi fu spiegato poi, in tempi non sospetti, che in realtà lo tenevo altissimo.

Nell’orgia di giorni liberi che intercorrevano fra la chiusura delle scuole il 23 dicembre e la loro riapertura il 7 di gennaio sembrava che ogni mattina si svegliasse una domenica; e per confondere ulteriormente le acque, oltre alle Messe di precetto che capitavano infrasettimanali, la Lega Calcio aveva deciso di far giocare l’ultima giornata di andata di sabato, al penultimo dell’anno, onde salvaguardare il cenone dei calciatori.

Come se fosse domenica, finito il pranzo semifestivo, andai in camera a luce spenta e radiolina accesa. Alle due e venticinque sentii il rassicurante jazz d’inizio delle trasmissioni. Alle due e ventinove si concluse il giro dai campi, denso di formazioni e colori delle maglie. Alle due e trentacinque un intervento dallo stadio Dall’Ara, ma non si trattava di un goal. Nel corso di un’azione del Bologna sulla propria fascia destra, Lionello Manfredonia – all’epoca in forza alla Roma – si era staccato lateralmente per chiudere sull’attaccante rossoblu, ma in affanno, tanto che era dovuto retrocedere un centrocampista a levarlo d’impiccio rifugiandosi in angolo. Nell’attimo in cui il gioco languiva, mentre tornava verso il centro dell’area, Manfredonia si era accasciato: da solo, senza motivo, come un passerotto uccellato dagli spalti.

Ed ecco, io di tutto ciò non ricordo nulla; posso solo ricostruirlo approssimativamente sapendo che stavo ascoltando la radiolina rossa, ad antenna spiegata, in camera mia. O meglio, ricordo che ci fu l’intervento dal Dall’Ara, ma non ricordo a chi appartenesse la voce. Ricordo che il cronista spiegò subito che non di goal si trattava, ma non ricordo quali parole cercò per giustificare l’accaduto. Ricordo che sulle prime si parlò di infarto ma non ricordavo che gli esami successivi esclusero l’evenienza. Ricordo soltanto che si raccontò di come la madre di Manfredonia fosse morta pochi giorni prima, e che il dottor Alicicco, il cui nome rifulgeva nell’organigramma giallorosso sull’Almanacco Panini, gli praticò la respirazione bocca a bocca.

Mi interrogo ancora oggi sul significato di questo buco nella mia memoria e l’unica conclusione che posso trarne è che, pur non essendo allora particolarmente ferrato nel freudianesimo, avevo istintivamente protetto la mia stessa innocenza ignorando il trauma o meglio calandovi un sipario non appena mi ero reso conto di ciò di cui si trattava: l’ingresso fortunatamente senza conseguenze ma non per questo meno prepotente e impreveduto – da una radiolina rossa la cui antenna, a furia di strattoni, iniziava a ripiegarsi – della morte nella mia infanzia.


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